Era un mattino freddo, intriso di salsedine. La coda della burrasca portava con sé stracci di nuvole grigie e veloci. Jazz uscì a piedi. Giacca nera, maglia vinaccia a collo alto, occhi scuri nascosti dai Ray-Ban tondi, sentiva l’anima impastata di malinconia. Lungomare, gli alberi scossi dal vento gli sputavano addosso mille gocce d’acqua. Col riverbero del sole sembrava un santo in processione per quanto brillava. Un santo che non fa miracoli. Assaporava una caramella al rabarbaro ripensando alla telefonata di Bonelli.
Felice lo aspettava poco più avanti. Lo trovò che ruminava una carota tenendo una mano sulla testa. Odiava il vento che scompigliava i suoi capelli neri, impomatati. Un cenno d’intesa, senza parole. Proseguirono insieme a passo svelto, scivolarono costeggiando il canale. Giunti alla darsena, Jazz buttò uno sguardo tutt’intorno: le insegne penzolavano cigolanti, i teloni dei natanti borbottavano all’unisono, e i gabbiani erano a banchetto sugli scogli. Accese una Winston e tirò una boccata profonda. Non fumava mai al mattino, ma quello era un mattino diverso. Felice, imprecando, teneva entrambe le mani sulla testa. Guardava le finestre opache del More e la figura che si stagliava sull’ingresso.
«Bella crianzèlla ‘e Natale, n’è Tommà?» pronunciò a denti stretti il vicequestore Bonelli. Jazz, al secolo Tommaso Cabrini, annuì ed entrò. Felice, con un occhio chiuso, tentava di esorcizzare il sosia napoletano di Giovanni Rana che lo fissava immobile.
«Ué, Felì, che tieni ‘stà matìna, nà palummélla all’uòcchie?». Addio cena di Natale, pensò, osservando il papillon rosso scarlatto del vicequestore. Glielo avrebbe stretto più a fondo.
Il preside Botti era a terra nel privé. Nudo, occhi sbarrati dietro una maschera di cuoio nero, lingua fuori, freddo come un cadavere. Lo era da circa sei ore, sentenziò il medico legale, mentre portavano via il corpo.
«Sospetta overdose», disse Bonelli. «In serata ne sapremo di più».
Jazz mise in bocca la solita caramella. Conosceva bene il More Jazz Cafè, suonava lì ogni giovedì, e la vista di quella scena, in quel posto, lo pativa come un oltraggio, una profanazione. Il lunedì, giorno di chiusura, era spesso aperto a feste private.
«Ieri sera è arrivato intorno alle nove, con la moglie e quattro amici». Mary J, la proprietaria, parlava mentre i suoi occhi verdi sprofondavano in quelli di Jazz. «Poco prima, era arrivato Olimpio» continuò. «Volevano star soli. Ho serrato la porta d’ingresso e son salita in casa dalla scala interna. Stamattina, li ho trovati nudi e addormentati. Olimpio era vestito, ma dormiva anche lui. Il preside era in quelle condizioni, con un collare stretto al collo. Aveva del sangue sul corpo, così ho chiamato il 118 e la Polizia».
Il privé aveva le pareti color oro, con un grande specchio su quella di fondo. Il pavimento a listoni d’acero grezzo, i divanetti neri, e i tavoli di legno bianco. Non c’era spazio per la fantasia, pensò Jazz, c’avevano dato dentro, in ogni senso. C’erano diverse bottiglie di alcolici e bicchieri sporchi, un profilattico usato, e vari dildo anali. Sul divano circolare, al centro della saletta, un morso in latex e due paia di manette. Sul tavolino, di lato al corpo della vittima, tre pillole blu, una gialla, e una bustina con residui di polvere bianca.
«Non ricordano nulla, Tommà» precisò Bonelli. «Azz’, nà festa esagerata. Mando tutto alla scientifica. Domani è Natale, i risultati li voglio oggi».
Le abitudini di Franco Botti erano note: sadomaso, voyeurismo, pedofilia. Aveva perso il lavoro per questo, e la moglie Greta, casalinga disperata e fatale, era l’ape regina. Insomma, «Un bel gruppo di buongustai» sostenne Felice, mentre Bonelli mostrava a Jazz una bustina di plastica. «L’abbiamo trovato nel pugno del preside» disse. «T’aggie chiammate apposta, Tommà. Tu sì poeta, e forse ‘ossape».
All’interno un biglietto:
Distruggimi, feriscimi, ma non creare vuoto in me.
Quest’armonia, dolce follia, ha il sapore di un’agrodolce magia.
Perdona la carenza di poesia per colpa mia.
Dai un tocco di dolcezza alla mia vita con una goccia di veleno che preservi tra le dita.
Tommaso preparava la tavola. Felice Pensiero, naturopata per hobby, chef di professione, aveva dato il meglio di sé per cucinare la cena della vigilia. L’orologio segnava le ventuno e sette, quando il suono dello smartphone sorprese Jazz.
«Tracce di Halcion in tutti i bicchieri. Sedativo!» esclamò Bonelli «Ma il pezzo forte è l’Elleborina in quello del preside. Veleno, Tommà».
«Elleborina!» esclamò Felice. «È un glucoside, si estrae dalle radici della Rosa di Natale. Merry Christmas, mister Botti».
Jazz sobbalzò. Ingoiò la sua caramella per gridare: «Christmas! Ecco cos’è il testo del biglietto».
L’indomani, Jazz raccontò una storia al vicequestore. Christmas Rose Latin 4et, una formazione di bossa nova, anni fa partecipò a un festival organizzato da una radio privata. Richiedevano un inedito, il loro si chiamava “Goccia di veleno”. Jazz era nella giuria.
Chitarra, batteria, voce e sax. Il sax di Olimpio Ricci, vittima di pedofilia.
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