di Alessia Pannone
La mia storia d’amore, come tutte le storie vere, non è finita nel momento in cui abbiamo detto basta. Per tanto tempo l’abbiamo trascinata comunque nei nostri giorni, senza averne più il diritto. Ce la tiravamo dietro, peso e rassicurazione insieme, facendo finta di guardare avanti, di camminare sereni.
Avevamo una porta sul confine delle reciproche vite, e ogni volta che sentivamo la necessità tornavamo a bussare, con l’assoluta certezza che l’altro sarebbe stato sempre lì dietro, pronto ad accoglierci. In effetti, per anni è andata così: uno dei due, per bisogno, mancanza, o egoismo, passava a controllare che nell’altra stanza fosse, ancora, tutto ok.
Un po' perché, preoccupati l’una per l’altro, dovevamo verificare che fossimo in grado di cavarcela senza la protezione di quell’amore potente; un po' perché, entrambi, avevamo desiderio di saperci ancora gli unici nei rispettivi cuori.
Mai una delusione, fino a qualche tempo fa; eravamo insostituibili ai nostri occhi, nonostante tutto.
Però, mentre la nostra porta restava lì, ferma dove l’avevamo piantata, la vita andava avanti nel suo scorrere incessante. Per cui, di colpo, nessuno dei due è più tornato a suonare al campanello.
In quel momento abbiamo iniziato a perderci, anche se ancora non lo sapevamo. Sì, perché prima di quell’istante non c’eravamo mai lasciati davvero. Ci riavevamo altrove, ci allentavamo sapendo che non saremmo andati in nessun altro posto. Tossico e spietato, come è sempre stato, ma autentico, primordiale.
Così, ho iniziato a dubitare. Si è fatta spazio in me la feroce paura di tornare a bussare e non trovare nessuno ad aspettarmi. L’incertezza mi ha tormentata, scorticata, risucchiata per lunghi mesi prima di riprendere coraggio per ripropormi a quell’appuntamento. Senza sapere, però, che luogo e orario li avevo concordati solo con me stessa. Mi sono avvicinata piano; in silenzio, di nascosto come un ladro nell’anima degli altri. Ho atteso. Ho sperato. Una parte di me era convinta di dover aspettare solo un po' più a lungo per ricevere risposta, ma sarebbe arrivata. Era una promessa. L’altra parte, invece, sapeva che stavolta sarei rimasta sola davanti a un portone chiuso per sempre.
Quando ho capito che lui non sarebbe tornato è stato come se mi avessero conficcato un metallo rovente in gola. Ho pensato dovessi aprire la porta e cercarlo, fregandomene delle conseguenze: avrei aperto la finestra affacciata sul nostro amore senza il suo permesso. Ho provato a tirare la maniglia, realizzando di non poter più fare nulla. Lui aveva preparato le valigie, si era allontanato senza voltarsi indietro, con la premura di chiudere a chiave, assicurandosi che in ogni caso non avrei potuto raggiungerlo.
In quel nostro angolo, fatto di intimità e tenerezza, ero rimasta sola. Alla fine, il mio terrore più grande ha assunto concretezza. Mentirei se dicessi di non aver sentito dolore, e ancora di più se confessassi di non aver provato a buttarla giù a calci e pugni. Volevo sfondarla, anche solo per andare di là a sfogare la rabbia. Ho visto le mie nocche diventare rosse, gli occhi bagnarsi, il cuore una poltiglia di niente, ma la porta è rimasta serrata. E lo sarà per sempre.
Oggi, a mente fredda, capisco che chiudermi fuori dalla sua vita, evitando ripensamenti, è stato l’ultimo, disperato gesto d’amore da compiere.
Uno dei due doveva farlo, prima o poi, e lo sapevamo. Io non avrei mai trovato la forza; a me serviva sapere che, comunque andassero le cose, potevamo ritrovarci nel nostro luogo segreto. Lì dove il tempo non esisteva: c’era il mondo e c’eravamo io e lui, sospesi nell’attimo eterno, altrove, al riparo da tutto.
Ancora una volta, ha agito nel modo giusto, sempre dieci passi avanti a me. Devo ringraziarlo, anche per questo, nonostante in un primo momento pensassi di morire. Devo ringraziarlo, perché quando ho gettato anche io la chiave, ho capito cos’era che mi divorava dentro: il nostro filo.
Stringere quella speranza a tutti i costi, restarne aggrappata con ogni centimetro di me, fino a sanguinare, mi avrebbe fatta sprofondare. Una volta mollato, ho compreso di essere rimasta sola a tenerlo: è scivolato giù, in un burrone, sul fondo. E ho sentito che sarebbe bastato poco e mi sarei schiantata anch’io, senza paracadute. Restare avvinghiata all’illusione mi avrebbe portato all’autodistruzione.
Così, ho lasciato andare tutto, per sempre: lui, la porta, il filo, il nostro sviscerato amore, ma non me. Io mi sono riparata, e tenuta stretta per la prima volta. Ho perso tanto, è vero, ma ho vinto la mia libertà.
Oggi quella porta non esiste più, non lo so, non sono mai tornata a controllare. A ogni modo, mi piace pensare che al suo posto sia nato un fiore, perché quando qualcosa muore, qualcos’altro resiste alla sconfitta. Nella scomparsa delle mie certezze, di ogni sicurezza che mi apparteneva, fuori dalla mia fortezza ho visto me stessa ricominciare a camminare. Niente finisce davvero, se sappiamo conservarne il ricordo, e niente si muove realmente, se restiamo chiusi nelle prigioni che ci siamo costruite.
Lui deve averlo capito prima di me, e di conseguenza si è comportato. Io ho aggiunto questa realtà alla lista delle verità da sapere solo dopo che me l’ha dimostrato, seppur indirettamente. Ora, l’unico “nonostante tutto” rimasto è quello della gratitudine, e ne sono felice, perché significa che il dolore non mi ha annientata, e neanche trasformata in quello che non sono.
E gli sono grata, per ogni cosa, nonostante tutto.
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