Un venerdì di agosto il buio era già sceso per invitare a cena i lampioni, mentre un uomo chiamava l’ascensore al tredicesimo piano di un ammuffito palazzo. Udiva i tuoni e la pioggia scrosciante. Il pianerottolo di marmette damascate, illuminato da una fioca applique, si elettrizzava a intermittenza con i lampi rivelati da una finestra.
L’uomo massaggiava le tempie, e teneva lo zaino in spalla. Pensava a quanto si sarebbe inzuppato per arrivare all’auto: maglia e pantaloni ridotti a stracci, e le scarpe di tela da buttare. Per fortuna, la sacca impermeabile proteggeva il notebook e tutto il resto. Il suo viso raccontava ansia e disillusione. La barba incolta, le occhiaie, la bocca aperta che aiutava il piccolo naso a catturare aria.
Un baleno accolse l’arrivo dell’ascensore, l’uomo schiuse le due piccole ante di mogano ed entrò richiudendole dietro di sé. Il vano era stretto, ambrato, in stile retrò. Pigiò il bottone T sulla tastiera oro antico e iniziò la discesa. Un fulmine scaricò a terra molto vicino. L’intero isolato fu cinto dall’oscurità, e l’ascensore interruppe a freddo la sua corsa. L’uomo trasognato sfregò la pietrina del suo Zippo, e fece luce dall’olezzo di benzina.
«Ti aspettavo. Stanotte ti ho sognata» sussurrò alla donna di fronte a lui. Lei sorrise con i suoi lucidi occhi verdi.
«Eravamo in spiaggia, seduti intorno a un falò, e tu ridevi felice» proseguì l’uomo.
Il viso della donna, a forma di cuore, divenne lunare. Splendeva di luce opaca che in emozione definiamo malinconia. Affannava, ma sorrideva, e il taglio delle labbra lasciava cogliere il dolce diastema degli incisivi.
«Agitavi il corpo come un salice al vento di maggio. Ti parlavo, mi guardavi.» L’accendino si spense, la luce tornò, ma cadde un’altra saetta e fu di nuovo buio.
L’uomo girò la rotella dello Zippo e ritrovò la donna al suo fianco. Indossava una maglia verde petrolio, a collo alto, sotto un tubino smanicato color senape. La frangia laterale dei capelli miele le tagliava il volto in diagonale. Era bellissima, pensava l’uomo.
«Ti sentivi sola e sei tornata?» le chiese, «Vuoi fare l’amore? O rinfacciarmi di non esserci stato quando sei andata via?» La donna lo fissava. «Perché se fosse per questo, beh… avresti ragione. Anzi, non me lo perdonerò mai. Avevo ancora una vita di cose da dirti, da viverti.» La fiamma graveolente dello Zippo danzava, divorata a molla dall’afflato ansioso dell’uomo che singhiozzava. La donna a terra supina pareva una presenza olografica.
«Sai, oggi ascoltavo una canzone che diceva: “Se potessimo iniziare le storie all’incontrario, così verso la fine potersi vivere l'inizio.” Be’… nel nostro caso avremmo vissuto questo schifo di dolore, ma oggi saremmo ancora insieme, felici.» Col dorso della mano portò via le lacrime succhiandole, poi, per non perderle. La donna pose le mani a conchiglia, e smorzò la fiamma dello Zippo come il cancro aveva spento la sua vita. Non ti lascio andare, pensava l’uomo nell’istante in cui il vano ambrato riprese a scendere verso T.
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